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#2 Famiglie: I limiti della famiglia nucleare. Altri modelli familiari

In questo episodio dedicato alla parola Famiglie, parliamo dei limiti del modello di famiglia nucleare e analizziamo come modello alternativo, i valori dei gruppi familiari delle società Matriarcali. Interviene Stefania Renda, Antropologa e docente universitaria che è stata impegnata diversi anni nella ricerca sul campo nei villaggi Mosuo di Yunnan e Sichuan.

#2 Famiglie: I limiti della famiglia nucleare. Altri modelli familiari

Questo è il podcast Cronario e noi Siamo l’anonima Crone.
In questo secondo episodio dedicato alla parola Famiglie, parliamo dei limiti del modello di famiglia nucleare e analizziamo come modello alternativo, i valori dei gruppi familiari delle società Matriarcali. Interviene Stefania Renda, Docente universitaria che è stata impegnata diversi anni nella ricerca sul campo nei villaggi Mosuo di Yunnan e Sichuan. Ha conseguito un dottorato di ricerca in antropologia ed etnologia presso la Yunnan Minzu University di Kunming con una tesi incentrata proprio sulla cultura Mosuo. Tra i temi d’ interesse della sua ricerca vi sono: l’antropologia del turismo, i moderni studi matriarcali, gli studi di genere e l’antropologia della parentela.

La parola “famiglia” in epoca romana definiva il gruppo domestico, composto da servi, schiavi, moglie, figli e altri consanguinei tutti sottoposti alla potestà del padre di famiglia. Da questo sistema di organizzazione sociale ed economica ha origine il concetto odierno di famiglia nucleare: padre, madre figlie e figli; il nucleo fondamentale su cui si basa ancora oggi l’impianto socio-economico della civiltà occidentale.
Nel suo libro Il fallimento della famiglia nucleare l’autrice e docente femminista Mariam Tazi-Preve mette in evidenza che il concetto di famiglia nucleare è fondato appunto sul principio giuridico del diritto romano in cui il matrimonio (parola che significa letteralmente “dovere della madre”) era la base essenziale per sottomettere le donne all’autorità del marito e quindi a garantire una legittima discendenza paterna.
Un sistema di valori che si rafforza con la diffusione del Cristianesimo come religione di Stato e l’istituzione del sacramento del matrimonio con cui si formula la “naturale” e perfetta unione tra un uomo e una donna tutta incentrata nell’atto della procreazione e unico ambito in cui la donna possa realizzarsi.

L’articolo 29 della nostra Costituzione, nonostante le varie modifiche al diritto di famiglia dagli anni ’70 in poi, indica la famiglia come una “società naturale fondata sul matrimonio”. Non definisce i componenti nel dettaglio, dando per scontato e “naturale”, appunto, lo schema maschio/femmina/prole. Ma di “naturale” la famiglia concepita nella nostra “civiltà” non ha davvero nulla.
Sempre Mariam Tazi-Preve rileva che lo schema della famiglia nucleare non solo non è “naturale” ma non è nemmeno il più funzionale possibile al benessere dei suoi componenti. Aggiungiamo inoltre che se esistesse una presupposta “naturalità” della famiglia la potremmo rintracciare, nell’accreditata “Ipotesi della Nonna” riformulata dall’antropologa Kristen Hawkes alla fine degli anni ’90, secondo cui la nostra evoluzione come specie è dovuta al modello primario di gruppo sociale costituito dal nucleo nonna/madre/nipote e non dalla coppia femmina/maschio.
Quindi è chiaro che si è celebrata come “naturale” la SCELTA, durante le varie epoche storiche, di concentrare il potere decisionale, la titolarità di diritti e il controllo dei corpi in capo al “pater familias” consolidando l’idea che tutto questo fosse naturale e immutabile. Una SCELTA che ha portato alle degenerazioni tragiche e alle violente conseguenze a cui assistiamo quotidianamente nell’ambito delle relazioni domestiche e familiari.

Michela Murgia, attivista e scrittrice femminista, ha più volte criticato gli elementi contraddittori e oppressivi della famiglia cosiddetta “tradizionale” proponendo un modello di famiglia, non aderente alle norme cosiddette naturali e non composta esclusivamente da una coppia: la sua famiglia queer. Il gruppo familiare per lei è in realtà una sorta di “creatività degli affetti”, senza etichette e unito indipendentemente dal sesso o dal tipo di amore. Le relazioni familiari per Michela Murgia dovrebbero basarsi sulla “volontà” giuridicamente riconosciuta, invece che sui soli legami di sangue.

Negli ultimi decenni la concezione di famiglia sta profondamente mutando in linea con i cambiamenti politici sociali, culturali e soprattutto economici. Da nucleo familiare fondato sulla coppia eterosessuale, sposata con figli, si sta passando a un caleidoscopio di possibilità e declinazioni. Ma il denominatore comune rimane la coppia e la convivenza, con o senza figli, con o senza matrimonio. Ma di fatto, i paradigmi culturali di cui le politiche fiscali, giuridiche e sociali sono espressione, continuano a privilegiare il modello matrimoniale tradizionale, escludendo o limitando chi vive al di fuori di esso. A questo proposito scrive Mariam Tazi Preve:

Queste politiche sono un riflesso della convinzione che la famiglia nucleare rappresenti un valore universale e indiscutibile.
Tuttavia, la realtà della famiglia nucleare non è mai stata stabile, e l’idealizzazione di essa è solo un mito: infatti, essa non è mai stata in grado di soddisfare pienamente le necessità emotive, sociali ed economiche dei suoi membri, generando frustrazione e conflitto. Questo modello è stato imposto come norma, ma il suo fallimento è di tipo strutturale, non individuale. Continuare a difendere la famiglia nucleare significa sostenere un sistema patriarcale che perpetua disuguaglianze di genere e limita la libertà di ciascun individuo.

Gli esseri umani sin dalla notte dei tempi hanno dato vita a varie e diverse modalità di organizzazione e relazione sociale e coniugato in vario modo i concetti di discendenza, collateralità e affinità e quindi quelle che chiamiamo famiglie sono di fatto realtà sociali in continuo mutamento. Voler dare il carattere di universalità alla famiglia nucleare è parziale e limitante e per questo la critica di Mariam Tazi Preve si basa sulla proposta di un’alternativa concreta: le strutture familiari delle società matriarcali che stanno all’inizio delle civiltà umane e che ancora oggi sono diffuse in ogni continente.
Ce le illustra la fondatrice degli Studi matriarcali moderni, Heide Göttner-Abendroth, nel suo libro Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, in cui evidenzia che esistono modelli familiari che si distinguono da quelli delle società patriarcali per il fatto che non si fondano sulla coppia, ma il cui nucleo centrale è l’intero gruppo familiare o cosiddetto “clan”, che è anche un’unità economica autosufficiente. Non si basano sulla volubilità dell’amore “romantico” e infatti non esiste il matrimonio inteso come riconoscimento istituzionale dell’unione tra individui, perché le relazioni amorose e sessuali sono libere senza obblighi o pregiudizi. Le coppie non vivono mai insieme e non si alimenta nessun privilegio emotivo legato alla sessualità o qualsiasi tipo di sentimento di possesso.

Quando parliamo di società matriarcali si genera immediatamente un fraintendimento di base che Heide Göttner-Abendroth ha eliminato riconsegnando la parola Matriarcato ad un orizzonte di senso diverso rispetto alla pregiudizievole interpretazione data dall’antropologia del XIX secolo.
Se patriarcato è tradotto come “dominio dei padri”, Matriarcato significa invece “all’inizio le madri”: la parola greca archè ha infatti il doppio significato di inizio e dominio. “Matriarcato”, quindi, non significa “dominio di donne”, ma indica, invece, società create dalle donne.

Scrive Heide Göttner-Abendroth:

Chi crede nel mito del patriarcato universale presenta questa forma di società, relativamente recente, come se fosse esistita in tutto il mondo fin dall’inizio della storia umana. Centinaia di falsità di questo tipo sono state propagate da teorici di orientamento patriarcale. Per prima cosa, non sono capaci di vedere il matriarcato se non attraverso le lenti del modello dominatore. Partendo da questo equivoco cercano in lungo e in largo la testimonianza di un matriarcato fondato sulla dominazione; poi non trovando nessuna testimonianza di una cultura conforme alla loro ipotesi patriarcale di un dominio delle donne, procedono asserendo che i matriarcati non esistono e non sono mai esistiti.

Nei suoi studi Abendroth dimostra che i matriarcati invece esistono e documenta in profondità il funzionamento, le finalità e l’estetica delle società improntate a valori Materni e di Cura, ossia alla capacità femminile di sostenere e nutrire la vita e quindi all’attitudine ad una responsabilità verso il creato. Se condivisi da donne e uomini, questi orientamenti costituiscono un nuovo modello di civiltà.

Quando ci si concede di riflettere sulle parole e i loro significati, la parola Cura nella nostra realtà, rimanda in modo automatico ad abitudini, incombenze, gesti servili e umili. La cura nel senso patriarcale è banalizzata da un lato perché svela dipendenza, fragilità e vulnerabilità e dall’altro perché viene “naturalmente” affidata alle donne, marginalizzata e resa invisibile. Non solo: priva i maschi della componente relazionale ed empatica dell’umano e impone alle donne l’obbligo della dedizione, dell’essere solo per gli altri.
Cura etimologicamente significa preoccupazione e sollecitudine. È un sentire e un agire. È un impegno quotidiano concreto e politico che coinvolge tutti e tutte. È pratica ed esperienza di vita.
È Una scelta.
Prendersi cura è una forma di relazione empatica e come sostiene la filosofa Elena Pulcini, “Non un essere per sé o per l’altro ma essere con l’altro.”
La Cura è una prospettiva che messa al centro di un sistema sociale e culturale dà una visione, una speranza di un sistema sociale e culturale diverso da quello patriarcale.

Le società matriarcali, oltre ad avere un’organizzazione familiare di tipo matrilineare e matrilocale, si basano su valori materni che valgono per tutti, per le madri e le non-madri, per le donne e ugualmente per gli uomini e sono basati proprio sul principio della Cura e del nutrimento, della solidarietà, del rispetto e della condivisione. Tutti valori che nelle società patriarcal-capitaliste sono stati sostituiti dall’individualismo e dalla competizione.
L’Educazione improntata al Rispetto, un’Economia solidale e una dimensione spirituale che ruota intorno a una entità femminile, personificazione delle forze naturali, è ciò che contraddistingue e tiene insieme le società matriarcali.
Tutto ciò da un lato si traduce in rispetto e protezione della Natura, dall’altro dà alle Madri, creatrici e nutrici di vita, la facoltà di organizzare il gruppo familiare su valori che danno di fatto forma a società pacifiche e armoniose.
La maternità in questi contesti è una pratica sociale che fa sì che i bambini e le bambine siano sentiti come bene comune non come un’appendice di sé o una proprietà privata da gestire come meglio si riesce.

Nelle famiglie nucleari concepite dalla società patriarcale invece, le madri si trovano quasi sempre prive di una rete familiare e sociale di sostegno e allo stesso tempo sono costrette a corrispondere all’ideale astratto di “brava madre” nella solitudine dei propri appartamenti, con tutte le ansie che ne possono derivare.
Nella nostra organizzazione sociale, quando scegliamo di diventare Madri, sappiamo che dovremo sostenere tutto il carico fisico e mentale del lavoro di Cura e, se abbiamo un’occupazione anche fuori dalle mura domestiche, sappiamo anche che andremo incontro a delle rinunce per le grandi difficoltà che incontra una donna a conciliare famiglia e lavoro.
Sarebbe vantaggioso per il benessere di tutti e tutte uscire dal sistema isolato e claustrofobico di nucleo familiare padre-madre-prole per creare reti di sostegno reciproco in gruppi familiari “elettivi” e sostenere tutto ciò anche con una rete efficiente di servizi pubblici.
Scegliere di essere Madri tornerebbe ad essere vissuto dalle donne come la bellissima e coinvolgente avventura che è. E come nelle società matriarcali, l’Educazione sarebbe orientata alle relazioni affettive e solidali invece che alla solitudine, alla competizione, ai conflitti.

Lo studio delle società matriarcali ci ricorda che nel remoto passato le madri, le donne, i corpi femminili erano al centro della visione, dei valori, del rispetto e che quando la Madre umana era amata, curata, venerata, invocata, ascoltata, la Madre cosmica rispondeva benevolmente, incoraggiando quella prospettiva evolutiva della specie umana, nell’età dell’Oro, del Paradiso Terrestre.

Le caratteristiche dei modelli familiari delle società matriarcali possono suscitare reazioni contrastanti: alcune di noi si sono sentite sollevate e confortate nello scoprire che un altro modo di concepire e vivere i rapporti umani e familiari è possibile, e stanno tentando di metterlo in pratica e realizzarlo anche nella nostra attuale società.
Altre si sentono invece pesantemente oppresse all’idea di continuare a condividere la propria vita quotidiana con le proprie madri o con i fratelli, ed esprimono perplessità sull’apparente assenza di conflitti delle società matriarcali. Di fatto, i conflitti che senz’altro esistono anche in queste società, hanno possibilità alternative di risoluzione.
Queste reazioni, seppure apparentemente opposte, nascono però da uno stesso atteggiamento “etnocentrico”, che guarda a tutte le altre culture considerando la propria come “il modello” attuando i propri dispositivi interpretativi che non sono “naturali” ma sono il frutto della storia culturale della società in cui si realizzano. È uno sguardo quindi che si rivela parziale e culturalmente orientato.
C’è chi, da un lato ritiene impossibili le società autenticamente matriarcali e chi dall’altro, pensa di poter semplicemente trasferire e copiare l’organizzazione di queste società nella nostra senza prima mettere in discussione e trasformare i processi e i valori a cui siamo stati abituati a credere e adattarci.

È quello che si auspica Stefania Renda, docente universitaria impegnata per diversi anni nella ricerca sul campo nei villaggi Mosuo di Yunnan e Sichuan. Stefania Renda ha conseguito un dottorato di ricerca in antropologia ed etnologia presso la Yunnan Minzu University di Kunming con una tesi incentrata proprio sulla cultura Mosuo di cui parla nel suo saggio Matriarcato: all’origine le madri? La società matriarcale dei Mosuo è un sistema sociale unico, che conosciamo bene anche grazie alla ricercatrice antropologa Francesca Rosati Freeman che ha vissuto lunghi periodi con le Mosou fornendoci la testimonianza della loro cultura attraverso un bellissimo documentario NU GUO Nel nome della madre e con il libro Benvenuti nel paese delle donne. Le due antropologhe con il loro lavoro di ricerca ci ricordano che le società matriarcali esistono e funzionano; e che non è utopico auspicare un cambiamento della nostra società traendo dal loro esempio un diverso orientamento culturale ed economico, senza pensare di trasferirle tali e quali, ma lasciandoci ispirare.

Stefania Renda

Nella mia esperienza di donna e ricercatrice ho avuto il privilegio e la possibilità di vivere e studiare con i Mosuo del sud-ovest della Cina, conoscendo da vicino il sistema familiare matrilineare in cui ancora gran parte di essi vivono. Alcuni Mosuo che abitano in alcuni villaggi del Sichuan invece, vivono seguendo la linea di discendenza patrilineare.
I Mosuo matrilineari che abitano tra le province cinesi di Yunnan e Sichuan, nell’area della piana di Yongning e del Lago Lugu costituiscono il gruppo etnico più numeroso della regione. All’interno di questo contesto, i Mosuo e i Pumi (Prmi) di quest’area condividono numerose pratiche culturali, tra cui il sistema di parentela matrilineare, l’adesione al buddhismo tibetano della scuola Gelugpa e la consuetudine del tisese — noto anche come “matrimonio in cammino” o “relazione di visita”, e anche zouhun (走婚) in cinese mandarino. Il termine tisese significa letteralmente “andare avanti e indietro”: ti indica il verbo “camminare”, mentre sese è un suffisso che esprime la continuità dell’azione.
Secondo la pratica culturale del tisese, i partner sessuali non convivono né condividono beni materiali, ma mantengono ciascuno la propria residenza presso la famiglia materna. Le relazioni di visita tra Mosuo e Pumi sono molto diffuse nella Piana di Yongning e nei villaggi intorno al Lago Lugu. Tuttavia, oggi tra i Mosuo matrilineari sono presenti tre tipi di unioni possibili tra partner: quella fondata sulla relazione di visita (tisese), la coabitazione e il matrimonio. Interviste e osservazione partecipanti indicano che oggi, quando una persona Mosuo decide di sposarsi, sceglie il sistema di residenza più adatto alla propria situazione contingente, con la possibilità di modificarlo nel tempo. Generalmente i Mosuo che abitano nello stesso villaggio del partner o in villaggi vicini non coabitano dopo il matrimonio, ma ognuno continua ad abitare nella famiglia materna. Il certificato di matrimonio è però necessario per chi vive nella Cina contemporanea per diverse ragioni: è più semplice ottenere il certificato di residenza dei figli, iscriverli a scuola e garantire loro l’assistenza sanitaria. Dunque, il certificato di matrimonio rappresenta un documento utile nella vita quotidiana e al matrimonio in sé non viene data quella accezione romantica del “finché morte non ci separi” diffusa nel contesto socio-culturale occidentale.

Un’ambiente importante e rappresentativo dell’essere-Mosuo è senza dubbio la stanza principale di ogni complesso abitativo chiamata yimi. Questo termine significa letteralmente la “stanza della madre”; in cinese mandarino viene chiamata “stanza della nonna” (祖母屋 zumuwu). Nella yimi, sopra il focolare (posto direttamente a terra), è collocata un’immagine in bassorilievo della divinità domestica e del fuoco, chiamata zabala. Tra questa figura sacra e il focolare si trova una pietra rettangolare detta kuagala, sulla quale vengono deposte offerte agli antenati, alle antenate e alla divinità del fuoco, secondo una pratica rituale chiamata cheddo. Tre volte al giorno, prima dei pasti e durante le festività principali, un membro della famiglia, indipendentemente dal genere, depone sul kuagala una piccola quantità di cibo e acqua in segno di omaggio.
Lungo il perimetro della stanza principale si trovano altri ambienti, tra cui uno importante è adibito a uso rituale: qui, i membri maschi della famiglia o del villaggio preparano il corpo del defunto per la cremazione. Le donne, nei villaggi Mosuo da me visitati, sono escluse da ogni attività legata alla morte, compresi i rituali funebri e la macellazione di animali. Le donne rappresentano la vita e il proseguimento di essa e non possono avere a che fare con la sfera della morte.
All’interno della yimi si ergono due pilastri simmetrici, detti domi in lingua Mosuo. Il pilastro a sinistra, simboleggia il genere femminile, si trova vicino all’ingresso; quello a destra, che simboleggia il genere maschile, è posizionato nei pressi della cosiddetta “porta della morte”, che conduce alla stanza dove si prepara il corpo del defunto per il funerale. Entrambi i pilastri sono ricavati dallo stesso albero: secondo i dati raccolti da Weng Naiqun agli inizi degli anni ‘90, il pilastro femminile proviene dalla parte inferiore dell’albero, più vicina alle radici, mentre quello maschile dalla parte superiore. Tuttavia, alcuni interlocutori locali — inclusi guide turistiche Mosuo del museo di Luoshui — riferiscono che il pilastro femminile sarebbe ricavato dalla parte superiore dell’albero, quella che produce fiori e frutti, simbolo della discendenza, mentre quello maschile deriverebbe dalla parte inferiore.
In corrispondenza dei due pilastri, i giovani Mosuo, all’età di dodici o tredici anni, partecipano al rituale di passaggio all’età adulta: per le ragazze si tratta della “cerimonia della gonna”, per i ragazzi della “cerimonia dei pantaloni”. Attraverso questi rituali, i giovani vengono riconosciuti socialmente come adulti e iniziano ad assumere maggiori responsabilità all’interno della propria unità abitativa definita yidu. In lingua mosuo vi è una distinzione linguistica ben precisa nell’indicare i componenti di una unità abitativa e i consanguinei. Il termine yidu indica infatti l’insieme di tutte le persone che vivono nella medesima abitazione, siano essi consanguinei o meno. Diversamente, ang/eun si riferisce ai membri dello stesso lignaggio materno e può essere tradotto letteralmente come “persone dello stesso osso”. Nell’orizzonte culturale mosuo, infatti, i figli e le figlie ereditano le ossa dalla madre e il sangue dal padre: le ossa, in quanto interne al corpo, restano permanenti; il sangue, invece, può fluire all’esterno, come nel caso di ferite, epistassi o mestruazioni.
Ogni yidu è guidato da un/una dabu, una figura che, sebbene nella maggior parte dei casi sia una donna, può anche essere un uomo. Il/la dabu è responsabile dell’assegnazione dei compiti domestici in base alle capacità dei membri e della gestione dei beni familiari. Le decisioni collettive vengono prese secondo un modello consensuale, che privilegia la discussione e la condivisione. In tale processo, l’opinione del/della dabu e dei membri anziani dello yidu ha particolare peso. Il ruolo di dabu è affidato a chi, all’interno del gruppo, ha dimostrato capacità organizzative e, soprattutto, imparzialità.

L’universo concettuale dei Mosuo ruota attorno alla figura della madre. Come osserva Göttner-Abendroth, in ogni società la maternità è riconosciuta come una funzione fondamentale, in quanto generatrice delle nuove generazioni e quindi del futuro. Tuttavia, nelle società patriarcali, questa centralità viene spesso occultata, fino al punto in cui le donne e le madri possono essere considerate proprietà o addirittura assimilate a schiave.
Nel contesto Mosuo, al contrario, la madre incarna l’archetipo dell’antenata mitica: è garante della continuità del nucleo matrilineare e, in quanto tale, le viene riconosciuto onore e rispetto. Il termine utilizzato in lingua Mosuo per designare la madre è ami, sebbene sia frequente anche l’uso del termine tibetano ama. Le espressioni ami dee (“madre maggiore”) e ami jie (“madre minore”) si riferiscono rispettivamente alle sorelle maggiori e minori, così come alle cugine della madre biologica, considerate culturalmente equivalenti a quest’ultima. Questo sistema di riconoscimento parentale è particolarmente evidente all’interno dei grandi clan matrilineari. Questo implica che si può essere madri (sociali) pur non avendo partorito, e lo stesso vale per la figura del padre sociale ricoperta dallo zio materno.

Prima dell’introduzione del sistema di residenza (hukou) nel 1958, che richiede l’indicazione dei nomi di entrambi i genitori per l’iscrizione scolastica, era comune che bambini e bambine Mosuo crescessero senza dover distinguere la madre biologica dalle zie materne. A tal proposito, il ricercatore Zhou Huashan riporta il caso emblematico di un uomo Mosuo che, al momento dell’iscrizione a scuola, non fu in grado di indicare il nome della propria madre, essendo cresciuto con diverse figure materne cui si riferiva indistintamente con lo stesso appellativo.
Il ruolo centrale della madre si manifesta non solo sul piano culturale e simbolico, ma anche sul piano linguistico. Come evidenziato da studiosi come  He Zhonghua, Xu Ruijuan e Zhou Huashan, il morfema mi, presente in molte parole della lingua Mosuo — tra cui ami (madre), yimi (stanza principale della casa), xinami (Lago Lugu, o “lago madre”), nimi (sole) e lhimi (luna) — assume i significati di “grande/importante” e di “madre”. In opposizione a questo, il morfema zo assume i significati di “piccolo” e “carino”, ed è impiegato per designare il genere maschile.

La famiglia matriarcale estesa dei Mosuo va intesa come una vera e propria unità sociale: un piccolo gruppo strutturato, i cui membri condividono valori, priorità e legami affettivi profondi. La funzione materna, ovvero l’atto stesso del “mothering”, che ha origine in un dato biologico, viene così riconosciuta e sublimata in un modello socio-culturale collettivo —  matricultura, secondo la definizione di Marie-Françoise Guédon. Questa matrice si fonda su principi di Cura reciproca e rispetto, sia all’interno del nucleo domestico che tra i vari nuclei del villaggio, estendendosi anche alla natura e agli spiriti o divinità che la abitano.


 

Hai ascoltato Cronario. Parole mutate/mutanti, scritto, narrato e prodotto da Anonima Crone e liberamente ispirato a:
Cronario. Parole Mutate Mutanti. Dizionario per immaginare futuri diversi, di Anonima Crone, 2024 Vanda edizioni
La cura editoriale del podcast è di Eleonora Ambrusiano, Stefania Girelli, Roberta Fenci e Luciana Percovich
Il titolo della sigla è TE LO RICORDI, gentilmente concessa da Nicoletta Salvi Menestrella Femminista
La voce e il ritmo del tamburo a cornice sono di Eleonora Ambrusiano
Sound design e post-produzione Roberta Fenci

I testi citati in questa puntata sono:
Il fallimento della famiglia nucleare. Mariam Irene Tazi-Preve, 2021 Vanda Edizioni.
Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo. Heide Goettner-Abendroth, 2013 Venexia Editrice
IL MATRIARCATO. All’origine le madri? Stefania Renda, 2020 Asterios Editore
Benvenuti nel paese delle donne. Un viaggio straordinario alla scoperta dei Moso. Francesca Rosati Freeman, 2020 Formato Kindle
Il documentario NU GUO Nel Nome della Madre di Francesca Rosati Freeman e Pio d’Emilia è visibile sul sito https://www.francescarosatifreeman.com/